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Lo stato di guerra senza un governo di guerra

L’analisi della decretazione d’urgenza della Presidenza del Consiglio. Non sono interventi limitati, perché si tratta di gestire l’Italia durante e dopo un conflitto, prima nell’emergenza sanitaria e dopo nella depressione economica. Un’indagine di Parlamentarius su esecutivo e Parlamento nello stato d’eccezione

di Parlamentarius (da newslist.it del 31 marzo 2020)

Il decreto legge del 25 marzo offre a costituzionalisti, politologi e opinionisti molto da discutere. Rispetto alla serie sfornata in queste settimane di decreti legge, decreti del Presidente del Consiglio e ordinanze ministeriali è quello che ha il respiro più ampio. Cerca di fare un po’ di chiarezza e riallineare l’ondivaga carovana di prescrizioni, regole e autocertificazioni che ci siamo visti precipitare addosso. Ce n’è stato per tutti come sappiamo, dalla chiusura di scuole e università al blocco dei settori produttivi intermediato da complicatissime scelte affibbiate ai Prefetti su chi chiude e chi no, senza farci mancare qualche bacchettata a runner e accompagnatori di animali domestici. Cerchiamo di capire un po’ meglio, perché se gli specialisti se ne stanno occupando, politici e giornalisti sembrano più distratti e preferiscono parlare dei pieni poteri di Orban: chi celebrandoli, chi condannandoli severamente.

Quello dei decreti e ordinanze urgenti e di necessità è sempre stato per il mondo del diritto un vero rompicapo. Non sono leggi, ma ordinanze amministrative, appunto. Però la legge possono anche derogarla. E quando sono in gioco diritti fondamentali, la salute su tutti gli altri, le ordinanze devono saperli bilanciare e quando serve farli prevalere su altrettanti diritti costituzionali. È quel che accade a noi, perché la tutela della salute prevale sulla libertà di circolazione, di riunione, di professare la fede “in forma anche associata e in pubblico” e persino sul diritto di lavorare.

Il rebus sta nel fatto che le ordinanze sono sì fondate in una legge, ma la legge non può prevederle in anticipo, perché servono solo perché c’è una emergenza da affrontare, imprevedibile per definizione. Certo, nello Stato diritto le ordinanze nascono dallo stato di necessità, ma più che le ordinanze stesse, l’oggetto di studio è stato un altro. È sempre stata preoccupazione dei giuristi il contenere il potere di ordinanza con altrettanti limiti. Una serie infinita di limiti: si devono indicare le norme derogabili, non ci si deve mettere contro i principi dell’ordinamento, quando pretendono di colpire una libertà costituzionale questo sarà possibile solo se esiste un valore superiore da tutelare (appena detto, la salute ad esempio), devono essere ben motivate, valgono solo per lo stretto necessario, devono essere ben controllate da un giudice quando è richiesto etc.

Bene, il nostro decreto legge ha avuto cura — e va riconosciuto — di precisare come le libertà individuali potranno essere limitate, perché elenca tutte le misure “tipo” adottabili. E il decreto legge dovrà essere un bel dì convertito dal Parlamento. Sicché, quantomeno alla fine della storia, una legge giungerà.

Però, non so proprio se questo basti. Anzi, la questione mi sembra decisamente più spinosa.

Qui non si tratta di interventi per fronteggiare una circoscritta calamità naturale, o per accelerare la realizzazione di un grande evento senza seguire le tortuose vie dell’italica burocrazia, o per bonificare un sito industriale assai inquinato. No, qui si tratta di definire il regime che accompagnerà gli italiani per un lungo periodo di tempo, che va da fine febbraio sino a fine luglio al momento, per gestire la più grave pandemia dai tempi della “spagnola” che, partendo dalle trincee della Grande guerra, fece strage soprattutto di giovani in tutto il mondo.

Quindi, tanto per chiarirci le idee, si tratta di questo: dell’inedita soppressione di alcune libertà fondamentali degli italiani, mai accaduta nella nostra storia; della chiusura dell’Italia, come comunità di lavoratori e di produttori e persino di famiglie, quando si vieta o limita il ricongiungimento dei lavoratori rimasti a spasso che tornano al Sud; del fronteggiare il rischio di una catastrofica crisi economica; del pericolo di trovarsi davanti a gravissimi disordini sociali; della possibilità concreta che l’Europa vacilli; della necessità di difendere il sistema produttivo italiano da scalate ostili e l’Italia tutta da OPA geopolitiche che puntino a ridimensionare le sue prerogative di Stato Nazione.

Penso possa bastare.

Perché purtroppo la drammatica sfida alla morte e la durissima battaglia contro il virus, che sta martoriando in queste ore i nostri fratelli italiani e che deve stringerci in un vincolo di fortissima solidarietà, implica pure tutte queste conseguenze.

In altre parole, riprendendo quel che tutti dicono, si tratta di gestire l’Italia durante una guerra, che non sappiamo quanto lunga sarà, ma che già sappiamo non essere meno dura delle altre che abbiamo combattuto nella nostra storia (una storia di popolo forse troppo breve, purtroppo). E a questo proposito la nostra Costituzione ci suggerisce qualcosa.

Essendo uno stato continuativo di emergenza, quando la guerra arriva la parola parte dal Parlamento e solo dopo passa al Governo. La strada costituzionale è stilata nell’articolo 78: “Le Camere deliberano lo stato di guerra e conferiscono al Governo i poteri necessari”.

In Assemblea Costituente si discusse molto di questa norma e pensate che c’era, tra i padri costituenti, chi preferiva la formula: “Le Camere deliberano lo stato di guerra e conferiscono i pieni poteri al Governo”. Una formula poi abbandonata solo perché evocativa di alcune leggi del tempo fascista, andate peraltro in desuetudine perché il regime non ne aveva bisogno, avendo ben altri “ordinari” strumenti di governo. Una formula che, a ben vedere, sarebbe uguale a quel che sembra essere accaduto in Ungheria con Orban, dove una delibera parlamentare c’è stata, ed in anticipo, con tanto di assunzione di responsabilità politica e costituzionale di chi l’ha votata.

Questo ci porta dritti dritti al principale problema del nostro decreto legge. Il rapporto col Parlamento.

È già curioso che un decreto legge, atto del Governo (che solo eccezionalmente può valere come fosse una legge e comunque a condizione che poi con una legge sia convertito dal Parlamento) si occupi, da solo, di disciplinare i rapporti tra Governo e Parlamento in tempo di “guerra”. Se poi guardiamo come il Parlamento viene trattato (certo, forse se lo merita, visto che se ne è stato silenziosamente “chiuso” per tanto tempo!), i dubbi aumentano.

Decreti e ordinanze via via emanati saranno comunicati alle Camere entro il giorno successivo alla loro pubblicazione. Pertanto i decreti, solo “dopo” che saranno stati resi pubblici a tutti i cittadini, saranno anche graziosamente inviati alle Camere. A dire il vero, sarebbe giusto ricordare meglio la scansione: prima sono annunciati a reti unificate e via social network, poi resi noti senza firma in due-tre bozze in rapida sequenza così girano allegramente per tutti gli smartphone d’Italia, poi sono pubblicati e finalmente trasmessi persino al Parlamento. Bè, è vero che i nostri parlamentari molto spesso ci lasciano perplessi e che non hanno fatto neanche il concorso da magistrato, però suona un po’ strano che meglio di loro sia trattata persino la Corte dei conti che (udite) su questi decreti e ordinanze almeno fa un controllo definito “preventivo”.

Comunicazione a parte, è scritto poi che il Presidente del Consiglio o un Ministro da lui delegato riferiranno ogni 15 giorni alle Camere sulle misure via via adottate. Quindi, si dibatte di tanto in tanto. Nel frattempo i decreti sono attuati da un pezzo.

Insomma, che il Parlamento torni ad avere un ruolo fa piacere. Ci sembra però francamente un po’ pochino. E ci sembra strano che all’opposizione alla fin fine, se abbiamo ben compreso, quasi quasi vada bene. Leggiamo infatti dell’istituzione di “cabine di regia” aperte alle opposizioni come ampliamento del loro ruolo. Ma la questione è anche di forma costituzionale, perché qui la forma è sostanza, perché è in gioco la garanzia di equilibrio istituzionale, perché per il futuro si creano precedenti che stonano con la cultura costituzionale dei pesi e contrappesi. Ma la carenza di leadership tocca anche le opposizioni, purtroppo.

Lo confesso: sono tra coloro che ritenevano e ritengono che per gestire una simile emergenza ci fosse bisogno di un Gabinetto di guerra, che unisse maggioranza ed opposizione. Non è stato voluto. Bene, però qualcosa di diverso si poteva anche escogitare. Non si poteva “sentire”, prima di emanare i prossimi DPCM, oltre al Presidente della Conferenza Stato-Regioni (come prevede il decreto legge), anche una commissione parlamentare? Non era possibile istituire rapidamente una commissione parlamentare bicamerale che avesse il compito di esprimere pareri e di attivare un’attività conoscitiva costante nei confronti dell’Esecutivo?

Non si tratta solo di forme e orpelli costituzionali da azzeccagarbugli. O meglio, sia chiaro, contano anche le forme, come dicevamo, quando si tratta della forma di Governo e se me lo concedete della nostra forma di Stato. Ma andando alla sostanza si tratta anche di saper bilanciare quei valori costituzionali in contrasto. Perché sono in arrivo giorni ancor più difficili, cari amici, nei quali, smaltita la grande sbornia da paura, dovremo anche capire come faranno gli imprenditori a tenere in vita le loro imprese, gli artigiani a salvare le loro botteghe, i camerieri, i negozianti gli apprendisti e i più deboli a sopravvivere, visto che 600 ed 800 euro una tantum potrebbero non bastare. E dovremo anche sforzarci di salvaguardare il tessuto produttivo di un’Italia fatta da tante piccole e medie realtà. Il tutto con un dosaggio accurato tra libertà, diritti e tutela della salute e interesse dello Stato, graduando una riapertura dell’Italia che non potrà tardare troppo. Altrimenti, sia chiaro, la battaglia è persa. Anzi è persa la guerra.

Il bilanciamento tra valori costituzionali è faccenda politica. Ma della politica con la “P” maiuscola, quella più nobile, che chiama alla responsabilità più alta e richiede condivisione e tanto, davvero tanto coraggio. Anche di dire e fare cose che non fanno aumentare i like su Facebook.

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